Rassegna stampa

Una raccolta dei migliori articoli di giornale sulle pubblicazioni della Nuova Ipsa editore di Palermo

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TUTTOLIBRI (supplemento de La Stampa) del 28 maggio 2005
Don Chisciotte in Sicilia, apologia del buon senso
 
 
Nell’anno che ricorda i quattro secoli di vita del Don Chisciotte forse non poteva mancare il Don Chisciotti e Sanciu Panza composto da Giovanni Meli in soli due anni, tra il 1785 e il 1786. E’ un ingresso potente, anche se trasversale. Infatti risulta difficile inserire questo poema eroicomico in dialetto siciliano nel flusso strettamente celebrativo, che, da noi, ha già preso corpo nelle iniziative dell’Istituto spagnolo di Cultura a Roma, nel bellissimo «cunto» di Mimmo Cuticchio proposto a puntate su Radio Tre, nella ripresa del Don Chisciotte teatrale annunciata da Maurizio Scaparro.
O forse, per ancorare i piedi a terra, dovremmo dire che il poema in musicalissime ottave celebra anch’esso il romanzo di Miguel de Cervantes, ma a modo suo, reinventandolo, cercando una strada che somiglia in parte a quella dell’immaginoso hidalgo, e tuttavia non poteva più essere la stessa: altro clima culturale, altri scenari filosofici, altra sensibilità. Giovanni Meli (1740-1815) è stato il più importante poeta dialettale del Settecento.
Palermitano, medico a Cinisi e poi professore di Chimica in quella che diventerà l’Università del capoluogo, era amato dall’aristocrazia e ammirato dallo stesso Ferdinando III che non gli negava favori. Ha costruito la sua fama sulle fortune del poemetto La fata galanti e soprattutto sull’opera intitolata La Buccolica, dove pastori e contadini paiono compresi in una nuova dignità umana ed incarnano l’incontro di spontaneità e saggezza, sobrietà e sanità: elementi che contribuivano a collocare Meli dentro gli ultimi echi d’Arcadia o fra gli elegiaci preromantici. Al di là delle formule, il succo più genuino della sua poesia stava nel sentimento di una natura benefica e serena, nel gusto di una libertà che scaturiva dal tranquillo godimento dei beni e delle passioni naturali. Rousseau? Quasi. Ben altra aria circola all’interno del Don Chisciotti.
Qui i pastori e i contadini fanno soltanto da comparsa. Non ci sono squisitezze agresti, ma velleità umane e fanfaronate. I dodici canti del poema seguono in alcuni passaggi la falsariga e le vicende di Cervantes. Ma Meli non è interessato alla parodia. A lui preme presentare la vita nelle sue oscillazioni tra delirio e buon senso. E allora identifica con Don Chisciotte due suoi amici letterati che vivevano di fantastici miraggi, fuori della realtà, e riserva a se stesso la parte «buona» e «concreta» di Sancio.
Il poema è perciò l’apologia del buon senso, col risultato che il vero protagonista finisce per diventare Sancio. Il che andrebbe benissimo, se Meli fosse un ritrattista o un caratterista. Invece è un lirico. E il suo rovesciamento si scioglie nella genericità, non assume i contorni dell’ideologia, o per lo meno non acquista lo spessore del pensiero pessimistico che apparirà con lucida durezza qualche anno dopo, nel 1801, quando il poeta scriverà da scienziato le Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia intorno all’agricoltura e alla pastorizia. Aprendo finalmente gli occhi sulla realtà, Meli manderà definitivamente all’aria pastori felici e «apuzze» indaffarate. E Don Chisciotti? Ebbe successo. Fu ammirato da lettori anche stranieri. Foscolo ne diede perfino una traduzione italiana, che sarebbe stato interessante vedere riprodotta adesso, nel bel volume curato da Salvo Zarcone, in margine agli eleganti endecasillabi della versione di Gina D’Angelo. 
 
Osvaldo Guerrieri